Un vecchio articoletto di natura etimologico-scolastica che mi è sempre piaciuto molto. Non c'entra nulla con il croato ... però sono sicuro che piacerà a tutti gli appassionati di studio delle lingue. Buona lettura.

 

Se hai negozi tu non ozi (di Giovanni Gobber)

Anche il cinque è un bel voto. Lo hanno stabilito i responsabili della scuola italiana. Avranno seguito i moniti di Oscar: «Non è possibile, non è tollerabile, non è lecito» che si badi solo alle cifre, come fanno i ragionieri. Così le nostre scuole prepareranno all’ozio invece che al negozio.

Del resto, la scuola e gli affari non sono mai andati d’accordo, nemmeno a parole. Nell’antica Roma un affare si chiamava negotium: era l’antenato dell’italiano negozio, che oggi designa una trattativa - un negoziato - oppure un esercizio commerciale.

Chi si dedica al commercio non ha un minuto libero. Anche i nostri antenati erano d’accordo: infatti negotium venne costruito aggiungendo la negazione nec al sostantivo otium «tempo libero». Secondo il glottologo francese Emile Benveniste (Vocabolario delle istituzioni indeuropee), i latini crearono la forma negotium per rendere la voce greca ασχολεία (askholìa) «occupazione, mancanza di tempo, affare». Era un termine delta lingua comune, che piaceva anche a Socrate. Quando il filosofo era stanco di «dialogare» congedava gli allievi e diceva: «ho un impegno» (emoì tis askholìa esti). Dicono che poi andasse da un certo Esculapio a comprare le galline per il brodo. Naturalmente tirava sul prezzo e faceva un buon affare.

La lezione di Socrate, arrivata a Roma con il negotium, trovò terreno fertile nelle lingue moderne: un po’ in tutta l’Europa medievale le transazioni commerciali presero il nome dall’assenza di tempo, dall’occupazione. Così, i francesi avevano molto à faire «da fare» e, per tradurre negotium, costruirono il sostantivo femminile affaire. Gli italiani lo copiarono, però sbagliarono qualcosa, visto che nella lingua nostra affare divenne maschile.

Invece i britannici presero l’aggettivo busy «senza tempo libero, indaffarato», gli legarono il suffisso -ness e formarono business «mancanza di tempo», Quindi «affare, occupazione». il business è dunque la versione più aggiornata del negotium. Ma un pezzo del sostantivo askholia è giunto a noi per altre vie. Infatti, se togliamo la a iniziale, che indica negazione, otteniamo skholla, che rimanda a skholé «tempo disponibile». Gli antichi erano gente seria: nel tempo libero dalle preoccupazioni quotidiane studiavano, leggevano, scrivevano, si aggiornavano.

Ed ecco che il termine σχολή (skholé) significò lo «studio», che occupava il tempo libero dagli affanni. il sostantivo indicò pure l’edificio nel quale si impartivano le lezioni. I Romani apprezzarono l’iniziativa e importarono dall’Ellade il termine schola, che fu poi tramandato alle lingue europee moderne. Invece il latino otium «tempo libero dalle preoccupazioni» degenerò nell’erede italiano ozio. Fu così sciupata la lezione degli antichi: «guai perdere tempo; quando si fa riposare il corpo, deve lavorare la mente».

Una volta la scuola piaceva almeno in quelle ore, i piccoli fìori dovevano curvare la schiena nei campi. Però lo studio è cosa seria: infatti oggi è passato di moda; si preferisce il business. Così molti giovani lasciano anzitempo il regno di Berlinguer. Per trattenerli, il ministro riconosce agli studenti il diritto all’ozio. Ma per i giovani è un cattivo affare. Non diventeranno neppure ragionieri.

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